


Sono nato in un piccolo posto di provincia, oggi
chiamato Culandia. Ho vissuto lì la mia
infanzia, appena ho potuto l’ho
lasciato. Ma lui è venuto con me, come un piccolo alone sulla camicia o una
macchia d’olio sulle tasche posteriori dei jeans . Gli altri la vedevano, io no.
Nascere in un posto lontano da tutto, ti dà una piccola distanza che all’inizio ti
protegge… un po’ come quando vedi la fiamma prima dello sparo, hai il tempo di
guardare ancora, anche solo per
un attimo. Poi nella vita questa distanza diventa la tua rincorsa, il tuo fiato
corto.
Ma prima no, prima il teatro era
qui e recitavamo tutti nella stessa scena. Prima ascoltavamo Death
or glory dei Clash, si finiva con il
motorino di qualcuno all’Arsenico a cercare di comperare un chiodo che non fosse duro come il cartone.
Non c’erano i ricchi e i poveri, c’erano
quelli che vivevano in città e quelli no, quelli che stavano al capolinea, in fondo nell’ultimo paese e quelli che la
corriera non la prendevano mai.
Prima si andava al Vinile , le band si alternavano, gente sconosciuta, capelloni , che per non
sbagliare stavano a petto nudo e
pantaloni di pelle, urlavano in
microfoni non collegati, ragazze con la
gomma da masticare in bocca, la malboro sporca di rossetto e occhiali neri da
sole che ballavano sudate con tutte quelle croci e quei rosari al collo. Si finiva sempre al parcheggio del Vinile a fumare e poi a chiudere, ballando in pista, la serata con un
bel mal di testa. Lì una tipa ubriaca, con
una t shirt con scritto “kills your idols”, mi urlava qualcosa..si muoveva dimenandosi e saltando
con due scaldamuscoli à pois: io sorridevo, annuivo, a quell’ora non capivo
niente, avevo una camicia damascata presa al San Francisco di Vicenza appiccicata
a un guardaroba anni 50 che avevo
trovato a casa di mio nonno. Avrei indossato pure il tappeto con l’immagine John
Kennedy che avevo in camera: non seguivamo nessun stilista, volevamo esibirci, uscire fuori, nessuna paura del ridicolo. Ho un ricordo
indistinto di quelle notti, erano buie e sature come tutte le foto in pellicola degli
anni 80.
Qualcuno era stato in Inghilterra
ed era tornato con qualcosa; qualche dr. Martens, calze nere a rete, una sciarpa, qualche jeans nero strappato, polsini
con dei teschi. Nessuna idea chiara: tutto era un insieme
di camicie texane, camicie rosa fuori dai pantaloni, i Diesel presi
fallati al Surplus, qualche maglietta di
Superman, le bretelle del padre. Al Vinile le ragazze non mi piacevano, la musica non mi
piaceva: ma era un porto aperto sulla noia
di quegli anni e di quei posti. Tutti arrivavano lì a un certo punto della
notte, tutti tiravano fuori una rabbia nervosa, sorda. Dovevamo scaricarci prima di tornare alle nostre famiglie, alle tensioni del pranzo domenicale.
Prima di Google, c’era solo l’edicola. Aveva tutto, casuale e centellinato se vivevi in un piccolo paese, era la mia finestra sul
mondo. Prendevo Rockstar, arrivavano sempre
delle copie sparse, ma quel numero di
giugno me lo ricordo bene: era quello speciale, quello con il poster dei Clash. Lo lessi tutto, subito, seduto ancora nella mia 127.
Non conoscevo nulla della loro storia. Così seppi che il padre di John
Strummer era un diplomatico, il padre di Topper Headon un preside che suonava il pianoforte
con il figlio, e che neppure Mick Jone sputò mai sulle 100.000 sterline del
contratto con la fottutissima CBS
Records.
Rimasi deluso, mi sentivo tradito, per me erano i miei
fratelli, ogni fine settimana uscivo con
loro, con la loro musica, loro mi riaccompagnavano a casa all’alba. Dovevano
essere come me, io volevo essere come loro. Ma non era così. Loro erano belli e ricchi comunque, io no.
Quel sabato sera non vidi nessuno,
piegai il poster, lo misi sopra l’armadio
e me ne stetti in camera a leggere qualcosa.
Ero arrabbiato: avevo capito che per saltare in alto, quelli come me, avrebbero
sempre dovuto prendere la rincorsa.
'smalltown boy'
friends style Mirco Reffo
special thanks Enrico dalle Carbonare
'supermarket flowers'
friends style Rini Giannaki , Giò Tamiello