La gente che ti spinge,
la gente che urla, la gente convinta, la gente triste, la gente che non ha
pazienza, la gente che fa sempre le
stesse cose che fanno tutti.
Lui la gente la vede solo di domenica, nella metro da Brooklyn a Manhattan . E’ il
suo giorno libero e guarda senza fretta la folla che lo spinge verso l’uscita
di Union Square. Ogni 5 minuti il brusio si trasforma nel rumore del purgatorio
dove si accalcano tutte le anime che arrivavano in città. In fondo per un
fotografo, New York si riduce a quello che succede da un marciapiede all’altro;
la gente è il più grande spettacolo del
mondo e non si paga il biglietto.
Ogni tanto, seguendo questa processione, riconosce qualcosa
in qualcuno, un pensiero, una luce prevale
e prende forma: tira fuori la fotocamera,
sistema il diaframma e scatta.
Durante la settimana lavora in una cucina a Brooklyn. Son già
4 anni. Gliela aveva detto la Sabrina che New York è come la carta moschicida; dove atterri
ti fermi, diventa una seconda famiglia ancor più difficile da lasciare. E alla
fine ti ritrovi ancora lì, appiccicato
accanto al tuo sogno.
Non ci pensa quasi mai a come fosse finito in quel ristorante;
era stata sempre la Sabri a parlargli di quella coppia di Como che cercava un
italiano da mettere in cucina ad insegnare ai messicani come si doveva tirare la
sfoglia della pasta. Il ristorante era lì da vent’anni, l’affitto
era ancora basso, lo avevano aperto ai tempi in cui dovevi sgomitare con i
portoricani anche solo per mettere un cartello sul marciapiede. Poi le cose
eran cambiate e la zona si era riempita di eleganti coppiette che alla sera
giravano col cane.
Da bambino sognava di fare il fotografo, i viaggi, le modelle: quel lavoro voleva fare e per farlo, come nei
suoi sogni doveva andare a New York. Ma
poi si accorse che non ce l’avrebbe
fatta: troppe vocali nel suo inglese, lo sguardo troppo orizzontale per una
città fatta di travi di ghisa che si arrampicano nervose una sull’altra. Niente
passeggiate al village, niente serate
jazz nei localini con le candele alla vaniglia, niente lampi flash nei lofts
bianchi di Tribeca . Le mille luci le
vedeva ancora dal Manhattan Bridge. Ma aveva continuato a fotografare ogni santa
domenica, lo faceva sempre e per tutto
il giorno, in ogni stagione.
Era il suo giorno di festa: ballava felice con la macchina
fotografica fermando per un attimo una fata a downtown e un vecchio principe
che prendeva il sole a Washington Square Park.
In questi quattro anni non aveva mai cercato un altro lavoro,
non aveva combattuto grandi battaglie né aveva ricevuto delle porte in faccia. Semplicemente aveva scelto la via più facile; lì stava
bene. Quella cucina era un acquario dentro un mare gelido: era rimasto un pesce
d’acqua dolce.
Aspettava il sabato sera, staccava già con il primo turno e
se ne stava una buona mezzora nella vecchia
libreria di Bedford Ave al 218 a sfogliare libri, cercando il bianco e nero di Weegee o i colori di Shabazz. Poi dopocena si
versava un bicchiere di Don Melchor e caricava la sua ricoh GR. Andava a letto presto pensando all’odore di
zucchero filato delle carrozze della linea D, quelle che venivano da Coney
Island. E ai bambini con la bocca sporca di pizza che avrebbe fotografato il
giorno dopo.
Gli uomini si ripetono e, a differenza delle donne, fanno
sempre le stesse cose, soprattutto alla domenica. Così dopo Times Square finiva da Strand a leggere dell’ultimo Rembrandt,
amava così tanto i quadri del distacco,
la perdita del dettaglio nei suoi lavori maturi. A un certo punto della vita non devi più
spiegare tutto, pensava uscendo dalla libreria.
Alla sera non
fotografa mai; meglio un cheeseburger
con le patatine alla paprika al Corner Bistrò, solo una altra Blue Moon per poi tornare alla sua tana, al di là del
ponte, dove le luci son spente.